Asia Cogliandro denuncia sui social di essere stata “cacciata” dalla Black Angels Perugia dopo aver comunicato la gravidanza. La narrativa è già scritta: atleta vittima, società carnefice. Ma forse vale la pena scavare oltre il pietismo di facciata.
I fatti nudi: non si è trattato di licenziamento, ma di scadenza naturale del contratto a giugno 2025. La società ha sospeso gli allenamenti per tutelare madre e nascituro, ha pagato regolarmente sette mesi di stipendio e proposto di coprire altri due mesi e mezzo sui cinque rimanenti della gravidanza. Proposta rifiutata dall’atleta, che preferisce denunciare pubblicamente.
La domanda scomoda
Qui arriva il punto che nessuno vuole affrontare: un’atleta professionista che rimane deliberatamente incinta durante un contratto sta rispettando i suoi obblighi contrattuali? Nel 2025, con tutti i metodi contraccettivi disponibili, la gravidanza “accidentale” è praticamente impossibile. Parliamo quindi di una scelta legittima e consapevole.
Lo sport professionistico non è un ufficio. Un’atleta incinta non può allenarsi, non può giocare, non può rispettare ciò per cui viene pagata. Eppure si pretende che la società continui a pagare l’intero stipendio per prestazioni che non verranno mai erogate. Dov’è l’equità contrattuale?
Il doppio standard
Immaginiamo un pallavolista che per sue scelte legittime decidesse di non potersi nè allenare nè giocare per un anno. La società dovrebbe pagarlo ugualmente? Ovviamente no. Ma se a farlo è una donna per ragioni naturali, allora diventa discriminazione. Per la società però, è la stessa cosa.
Non si tratta di negare il diritto alla maternità – sacrosanto e inviolabile. Si tratta di chiedersi chi deve pagarne il costo quando interferisce con impegni contrattuali precisi. La risposta dovrebbe essere un fondo nazionale, non le società sportive che già faticano a sopravvivere.
Responsabilità individuali
Una professionista potrebbe programmare la maternità fuori dalla stagione agonistica o accettare le conseguenze economiche delle proprie scelte. Un chirurgo non opera con le dita rotte, un pilota non guida bendato. Perché un’atleta dovrebbe essere pagata per aver scelto di non poter competere?
Il caso Cogliandro rivela l’ipocrisia di un sistema che predica parità mentre crea privilegi asimmetrici. Finché continueremo a confondere sentimentalismo con giustizia, non troveremo mai il bandolo della matassa in una vicenda più che intricata. Il ministro Abodi ha detto che si occuperà del problema, speriamo che si risolva una volta per tutte, garantendo il diritto delle atlete di essere madri e delle società di non restare con il cerino in mano.